Caro direttore, ho letto con grande interesse l’articolo di fondo di Dario Di Vico pubblicato mercoledì scorso dal Corriere della Sera. Condivido l’analisi sul ruolo dell’industria in questa difficilissima crisi economico-sanitaria. Non c’è dubbio: senza manifatturiero l’economia italiana avrebbe subito un tracollo. Lo stesso ruolo ha avuto durante la crisi finanziaria esplosa nel 2008. Senza una solida rete industriale l’Italia avrebbe vissuto la stessa gravissima situazione della Grecia (guarda caso un Paese privo di un vero sistema industriale). Condivido anche la necessità di dare all’Europa e all’Italia una vera politica industriale che favorisca la crescita nei prossimi lustri.
Non sono, invece, d’accordo con Di Vico quando attribuisce a Forza Italia una sorte di disinteresse o meglio una visione superata della politica industriale. È vero l’esatto contrario. Non è certo un caso che Silvio Berlusconi abbia scelto il portafoglio della politica industriale per il mio incarico da Commissario europeo. Da allora abbiamo contribuito a dare all’Unione europea una politica industriale moderna e competitiva. Con uno sguardo rivolto al futuro. Dopo trent’anni, per la prima volta ha avuto una strategia industriale che ha rilanciato tutti i settori: dall’acciaio, alla chimica, allo spazio, all’industria creativa, dallo sport alla difesa. Il lancio della nostra rivoluzione industriale anticipava le scelte che oggi si stanno facendo a favore di un’industria più verde.
Da Commissario europeo e da Presidente del Parlamento dell’Unione mi sono battuto anche con grande successo affinché l’Unione si dotasse di una politica commerciale che tutelasse l’industria europea dalla concorrenza sleale cinese e non solo. Le norme antidumping UE hanno avuto non a caso un relatore di Forza Italia, Salvatore Cicu. Si potrebbe obiettare che si tratta di risultati già ottenuti. E ora?
Forza Italia continua ad avere una visione (accompagnata dall’azione) di politica industriale moderna e non inquinante. Venerdì scorso abbiamo consegnato al Presidente del Consiglio Draghi la nostra proposta di piano nazionale per accedere ai fondi del Recovery Plan. Il cuore del nostro progetto è una politica industriale collegata al green deal, ma che deve essere realizzata assieme al mondo dell’impresa e dell’agricoltura. E non contro. Non è un caso se ci stiamo battendo per una vera rigenerazione urbana che favorisca la riduzione di emissioni di CO2 e dei consumi energetici e che favorisca, nello stesso tempo, il settore dell’edilizia e dell’immobiliare. Che, a loro volta, mettono in movimento tanti altri settori industriali. «Quand le bàtiment va, tout va» ama ripetere Berlusconi.
Potrei aggiungere ciò che da anni stiamo facendo per spingere la Pubblica amministrazione a pagare i debiti pregressi che ha con le imprese. Per non parlare di infrastrutture. Chiedere la realizzazione del Ponte sullo Stretto significa valorizzare il nostro saper fare industriale in questo settore. E farlo in Italia, non solo in giro per il mondo. Anche la nostra storica battaglia per la riforma di una giustizia lumaca è parte della politica industriale. Tempi lunghi dei processi penali e civili rappresentano una perdita di almeno 2 punti di PIL ogni anno. Lo stesso si potrebbe dire per la nostra continua azione a favore del taglio del costo del lavoro e della riduzione della pressione fiscale che soffoca chi intraprende e ne limita l’attività.
Non mi sembrano scelte di una forza politica che guarda a un firmamento senza stelle. Anzi, la nostra azione in questo governo come ha sempre detto Silvio Berlusconi sarà caratterizzata dall’impegno a tutela della salute ma contemporaneamente al sostegno di imprenditori grandi, piccoli e medi. Senza impresa non c’è lavoro, senza lavoro non c’è libertà. A questo punto voglio rispondere anche all’editoriale di Enrico Letta che parla di un patto per ricostruire. È esattamente quello che deve fare il governo Draghi mettendo in cantiere il Recovery Plan nazionale. Ecco perché parliamo di una visione dell’Italia del domani.
Ma, per aiutare il governo a raggiungere questo obiettivo, serve unità di intenti tra le forze che ne hanno favorito la nascita. Sollevare questioni etiche divisive, come legge Zan e ius soli, non serve a rafforzare questo patto fra italiani di buona volontà che non è una maggioranza politica. Dividere significa mettere in difficoltà l’esecutivo e minarne la ragion d’essere. In questo momento serve uno spirito unitario per sconfiggere il coronavirus comprendendo che questo governo non è quello precedente a guida PD-M5S, ma una unità nazionale il cui motto non può che essere «l’Italia innanzitutto». Quando la tempesta sarà finita ognuno tornerà alla propria coalizione politica. Noi, da popolari europei, in quella del centro-destra, il Pd in quella della sinistra.